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Rivendicazioni migranti

Rivendicazioni migranti

Gennaio: ribellione degli africani impiegati nelle campagne di Rosarno. Primo Marzo: sciopero organizzato dai lavoratori migranti presenti in Italia. Ottobre: in Campania, gli extracomunitari irregolari organizzano una manifestazione il cui slogan è «oggi, non lavoro a meno di 50 euro». Novembre: a Brescia, alcuni lavoratori extracomunitari irregolari rivendicano i diritti fondamentali rimanendo su una gru per due settimane.
Questi sono solo alcuni tra i più significativi eventi di una fenomenologia del tutto nuova per il nostro Paese. Una fenomenologia che colpisce e fa riflettere, perché ad essa soggiace una esigenza di civiltà. Perciò, ho scritto questo articolo. Perché sono convinto che, nella storia del fenomeno migratorio in Italia, il 2010 debba essere ricordato come l’anno delle prime, consapevoli rivendicazioni migranti. Certamente, parlando di immigrazione, quello di una emergente azione collettiva non è l’unico aspetto che merita di essere sottolineato. Occorre anche ricordare che – durante questo anno solare – abbiamo colto le prime conseguenze relative all’applicazione del «reato di immigrazione clandestina» contenuto nella l. n. 94/2009. Per effetto di questa norma decine di migliaia di lavoratori extracomunitari impiegati irregolarmente – oltre a quelli che, in virtù della crisi economica, hanno perso il lavoro regolare (nelMerito.com 11/12/2008) – non solo sono rimasti, o rischiano (tutt’oggi) di cadere, nella famigerata clandestinità, ma vengono, altresì, considerati, con la forza della legge, persone penalmente perseguibili (Benecomune.net 04/07/2009). Questo è – per sommi capi – l’humus all’interno del quale si alimenta una schiavitù aggravata dalla ricattabilità di una condizione dalla quale lo straniero è impossibilitato ad emergere.

Inutile sottolineare che tutto questo è inaccettabile per un paese civile e democratico come dovrebbe essere l’Italia. E allora, quando davvero non ne possiamo più delle retoriche buoniste contrapposte alle narrazioni mediatiche e politiche esplicitamente razziste, ecco affacciarsi sulla scena pubblica il migrante che rappresenta se stesso, rivendicando la propria dignità. Egli non è un delinquente e – badate bene – non è nemmeno un disoccupato; egli produce, lavora – il più delle volte – in silenzio; tutte le mattine, si sveglia molto prima di un coetaneo italiano; molto spesso torna a casa dopo tutti gli altri; quando ce l’ha una casa; egli – comunque vada – comincia ad assumere su di sé la coscienza di essere una persona uguale alle altre e, in quanto tale, diventa consapevole di poter rivendicare una serie di diritti fondamentali. Piuttosto che fuggire dai controlli, da una «legalità» che non lo tutela – anzi, lo rifiuta – egli agisce, rivendica, produce solidarietà, alimentando le speranze e la consapevolezza di chi vive – o rischia di vivere – condizioni simili.
Non dobbiamo trascurare il significato di questa coraggiosa, ancorché pionieristica, dinamica conflittuale: la questione in gioco è quella di essere riconosciuti come persone.
Perciò, proprio in questa occasione, credo valga la pena rispolverare alcune nozioni di base: il conflitto, quando prende forma, non può essere sempre appiattito o etichettato come una forma di devianza, di violenza o di antagonismo rispetto al sistema. Queste sono idee del passato. Purtroppo, il conflitto fa parte della nostra realtà. Oggi più di ieri, esso richiede di essere compreso: dal rapporto marito e moglie, passando per la quotidiana convivenza tra estranei, fino al piccolo mondo antico dei «giochi di palazzo», questo tipo di relazione attraversa gli scenari più disparati della vita e dell’esperienza umana. Certamente, nel manifestarsi di una azione rivendicativa, nulla può impedirci di pensare che questa possa scadere nell’incomprensione, nella violenza e nella repressione, soprattutto in contesti in cui la comunanza linguistica e culturale viene meno. A ben vedere, però, noi sappiamo che è soprattutto nelle beghe tipicamente italiane che le dinamiche conflittuali tendono a fuggire dal dialogo consapevole e dalla negoziazione, assumendo – sovente – incomprensibili derive violente e/o repressive. Questo non deve essere un motivo di rassegnazione, perché, guardando ancora meglio, quella dei lavoratori migranti irregolari è l’azione di chi ritiene di avere il diritto ad essere incluso nel sistema. Allora, una volta compreso ciò, non rimane che sottolineare che – in tutte le occasioni – la forza delle istituzioni democratiche si manifesta, non solo nella qualità delle leggi promulgate, ma, anche – e prima ancora, direi – nella capacità di mediare e porre delle soluzioni ai conflitti emergenti.

 

di Andrea Villa - Dottore in Sociologia, autore e studioso in materia di immigrazione
07/01/2011

Articolo pubblicato su nelMerito.com